Andrea Pazienza nell’umano tumulto

“Nell’umano tumulto, dona ai più miseri uno sguardo”

– Charles Dickens

Paz e molti della sua generazione arrivarono in città con il fresco soffio della gioventù. Chi lo avrebbe detto che la vita li avrebbe presi tutti, a uno a uno?

Quando Paz morì, i giornali riportarono la notizia di una malformazione cardiaca congenita che lo accompagnava fin dall’infanzia. In quell’occasione Oreste del Buono scrisse che Storia di Astarte, pubblicata su Comic Art, era la cosa migliore che avesse letto da molto tempo. Incuriosito, comprai la rivista. Ero da sempre un lettore di fumetti, ma quella storia fu per me una scoperta, o meglio una porta. Una porta su una cosa nuova. Una cosa nuova, separata da tutto quanto avevo letto fino ad allora, andava a collocarsi nella prateria dominata da Tex. Tutto era nuovo per me: i disegni erano sospesi tra realismo e caricatura, dramma e comicità, dettaglio e sintesi. Come se Gustave Dorè, ammirato nei libroni di famiglia, si fosse fuso a Jacovitti, ammirato nei libroni di famiglia; e poi c’era quella storia magnifica: il cane Astarte, carico di un’antica guerra, appare in sogno a Paz per narrargli di quando uccideva, piangeva o si pisciava sotto dalla paura e di quando si godeva le carezze e le confidenze del suo padrone: Annibale. 

La lotta sanguinaria di Astarte mi inchiodò sotto l’ombrellone. Quanta perfetta fiducia e quanta paura in quella corsa, portata avanti dal ritmo vivo dei suoi balzi. Quel fumetto conteneva moltissime cose e intravvidi subito le dimensioni del campo espressivo di Paz. Ne intuii la vastità.

Quell’estate stessa, nei recessi di una vecchia edicola odorosa di fumetti, trovai tutta la prima annata di Corto Maltese, dove erano pubblicati i brevi racconti de Il Segno di una resa invincibile. Leggendoli, la vastità fu confermata. Finzioni mi diede, a me ragazzino tutto Girelle e Martin Mystère, un’idea nitida di che cosa fosse la disperazione. Le altre storie della serie, altrettanto interessanti, non somigliavano a Finzioni, non si somigliavano tra loro, non somigliavano a nessun’altra cosa che avessi letto fino ad allora: si parlava di suicidi naturali come un tramonto, di stralunate conquiste del West, di sculacciate sadomaso con Gente Motori arrotolato. Ce n’era abbastanza per decollare in direzione della stratosfera.

A settembre, durante la ricreazione, parlai agli amici di scuola di questa grande novità della mia vita. Il ripetente di turno, un cristone tatuato, dopo avere scritto con il pennarello “W Juve” sulla porta del bagno, mi disse con aria annoiata che Paz era morto di overdose. “Non è vero,” risposi. “Aveva un difetto al cuore”. Subito aggiunsi: “Lo ha scritto anche Oreste del Buono sul giornale”. “Questo non lo so, ma so di sicuro che era un drogato” ribatté, dando un tiro alla sigaretta, mollemente appesa tra anulare e mignolo. 

Eh beh. 

Lo presi per il colletto dicendo oh, lui mi diede una spinta rispondendo hey, lo strattonai urlando oh. Gli buttai un braccio intorno al collo e feci leva, lui si liberò e fece lo stesso, trascinandomi per terra, gli misi una mano in faccia e spinsi, mentre lui faceva growl. Tutt’intorno gli amici gridavano dài, dài! Io nello sforzo della lotta tentavo di parlare, come fanno gli alpini, che correndo suonano la trombetta: “Anf… Juventino di meee… anf…  di meee…pant… dimmeeeer…”. Non potei finire: di colpo le voci dei tifosi cessarono, mentre mi sentivo afferrare per la cuticagna. Mi ritrovai a penzolare sotto il braccio destro di Guerino, l’uomo-bidello tarchiato, barbuto e con il pullover blu. Sotto l’altro braccio penzolava il nemico. “Ora andiamo dal signor Preside”, disse Guerino. “Ha cominciato lui!” bofonchiò lamentoso il nemico. “Pecora!” sibilai. Il Preside magro, giacchetta, aria alla Mazzini, ci fece un fervorino. Io conservai capo basso e dignitoso silenzio, ma dentro ero frappè: giuravo vendetta, l’anno è lungo, pensavo, avremo modo, vedrai, oh se lo vedrai. Juventino di merda.

Quel pomeriggio raccontai tutto a Alberto, mostrandogli i lividi come fossero medaglie. Albé era il barista del mio quartiere, un bel tipo sui quarant’anni, di origine toscana. Aveva sangue da cavatore nelle vene. Volto duro, segnato da poche rughe profonde, occhi grandi e buoni. Petto, spalle e braccia di marmo, che esercitava sollevandosi a una sbarra montata sotto l’architrave della porta sul retro del bar. A braccio di ferro non aveva rivali. Quando rideva sembrava un bambino. Era un po’ lo zio di tutti noi adolescenti, che facevamo la fila nel suo locale per giocare a bigliardino e per orecchiare i discorsi degli avventori più grandi. 

Il bar sapeva di tabacco e legno vecchio, d’inverno si librava nell’aria il profumo di punch alla livornese, come fosse incenso in chiesa. I rumori erano quelli vaporosi della caffettiera, dei bicchieri tintinnanti e del chiacchiericcio, accompagnati in sottofondo delle musichette dei primi giochi elettronici. C’era anche un juke-box, ma suonava pochissimo. 

Appoggiato con i gomiti sul bancone, Albé seguì il mio racconto fino in fondo, poi, con la sua parlata da cavatore disse: “Hai fatto bene a dargliele, ma aveva ragione lui. Andrea Pazienza era un tossicomane. Perché tacerlo? I migliori tra noi lo erano”. 

Alzai l’indice e tossicchiai. “Ma sul giornale hanno scritto…”.

“E certo,” mi interruppe Albé. “Ogni volta che muore un tossicomane famoso, si cerca di salvarlo giustiziando la sua tossicodipendenza”. Sorrise dirigendosi verso l’espositore delle caramelle. “Perché tacerlo?” continuò, sistemando a casaccio Big Babol e Morositas. “Non eravamo noi a essere sbagliati, era la situazione a esserlo. Il nostro solo errore, se così vogliamo chiamarlo, è stato l’aver vissuto senza prudenza. Vuoi una Zigulì?”. 

Che botta, ragazzi. All’epoca vedevo i drogati come delinquenti: questa era, infatti, l’opinione di papà e dello zio, sonoramente espressa nelle cene davanti al telegiornale.

Accettai la Zigulì e me ne andai a casa.

In seguito tornai spesso all’attacco con Albé. Volevo capire. Lui raccontava spillando birre, il braccio tatuato, le maniche della camicia arrotolate fin sopra i gomiti. Una volta in cui s’era scolato qualche birra in più mi portò nel retro del bar e tirò fuori da una scatola alcuni ritagli ingialliti di cronaca nera, nei quali comparivano alcuni degli avventori del locale: molti li conoscevo, erano Paolino, Enri, Giordano. Altri invece non li avevo mai visti. Ne indicai un paio. 

“E questi chi sono?” 

“Amici”. 

“E dove sono ora?”. 

“ Morti” disse Albé in un soffio. Diede la stura a una serie di aneddoti che facevano lo slalom tra furti, spaccio e banda armata. Io ascoltavo con una faccia da mascella slogata. Tutti drughè! Tutti drughè coinvolti in loschi giri! E pensare che erano gentili e protettivi con noi ragazzi, ci prestavano libri e vecchie riviste di fumetti, parlavano di politica con parole semplici. Erano gente con la schiena dritta e le mani callose. Da sempre avevo notato che tra loro c’era un’amicizia particolare, intima e complice, che io invidiavo e della quale ignoravo il segreto. Ma ora l’avevo capito il segreto che li univa. Altroché, se lo avevo capito.

Albé mi disse che l’eroina era arrivata nell’estate del 1977, dilagando improvvisamente: tra i motivi del contagio annoverava la paura del futuro, congenita a ogni gioventù. Secondo Albé qualcuno capì come sfruttare quella paura e decise di lasciare affluire l’eroina. Costava due lire, prometteva felicità e conoscenza: la vendettero come il gelato. 

I gelati sono buoni, ma costano milioni, cantavano gli Skiantos.” 

Albé amava citare Freak Antoni. 

“A un certo punto il prezzo dell’eroina salì, strozzando chi era ormai agganciato. Molti morirono, molti altri si ritrovarono a pensare alla droga tutto il giorno. Altro che fare politica: tutto il tuo tempo, tutte le tue energie vengono assorbite dalla ricerca della dose. L’eroina anestetizza. Quando non hai più energia e voglia e fiducia per resistere al dolore del mondo, arriva lei e sbatte fuori il mondo. Sostituisce il cervello nella produzione di endorfina. Purtroppo lo sostituisce per sempre. A che gusto lo vuoi il succo di frutta? Pesca, come al solito?”.

“Sì’, grazie”.

Bevvi. Non so che faccia avessi. 

“Hey, è buono?” chiese Albé.

“Quasi”.

Fu in quel periodo che uno degli avventori più simpatici del bar, Giordano. Lo chiamavano “il cuoco di guerra” perché poteva imbastire un pranzo succulento con qualsiasi avanzo avessi nel frigorifero al momento. Giordano morì di tumore epatico, dovuto, si disse, a un’epatite contratta ai tempi della tossicodipendenza. Quando Albé lo seppe scoppiò a piangere al telefono. Venne al funerale con una sciarpetta color arcobaleno, che fu l’unica nota di colore di tutta la giornata. Mentre gli altri stavano a capo chino, lui trafficava all’intorno, si dava da fare, spariva, riappariva. Quando la ruspa si avvicinò per riempire la fossa, lo vidi parlare con i becchini, superare con un salto un muretto e tornare con una vanga. Cominciò lui, poi passò la vanga all’amico più vicino. Poco dopo, mentre tutti a turno ricoprivano di terra la fossa, giurerei di averlo sentito dire tra sé, capo chino, mani in tasca, sciarpa colorata al collo: “Ciao Giò. Siamo stati… imprudenti”. 

Finita la cerimonia andammo al bar. Albé offrì da bere per tutto il pomeriggio. Io ero ipnotizzato dal suo braccio sinistro, come se lo vedessi per la prima volta: era tatuato con uno stralcio di vite che arrivava dalla spalla al polso. Quando spillava le birre e stappava le bottiglie, le foglie e i grappoli sembravano guizzare.